Mentre il cinema soffre l’incubo del futuro – sale a poltroncine alterne dopo aver fatto il biglietto online? Il primo che tossisce espulso? Tolleranza zero per le coppiette che limonano? – noi ci segniamo un po’ a malincuore le magnifiche sorti e progressive dello streaming di qualità.
Molti, ma molti anni fa, cioè nel 2003, il regista dei quattro Oscar 2020 Bong Joon-ho raccontava la storia di un serial killer, meglio: una storia attorno a un serialkiller, prendendola di peso dalla realtà di una piccola cittadina della rurale Corea del Sud.
Ivano Di Matteo (1966) è un regista e sceneggiatore che sa giocare a Cluedo con i fatti di cronaca, in film di solito molto scritti, sceneggiati insieme all’attrice e compagna Valentina Ferlan.
È il momento di portare in trionfo i fratelli Safdie, Josh e Benny, nati a metà degli anni Ottanta e sbarcati su Netflix dal 31 gennaio, con Uncut Jems – Diamanti Grezzi.
I cavalieri ciechi degli abissi, ovvero una genia di mummie candide, magre e affilate, in sella ai loro destrieri, come uscissero da un incubo di Dürer, parlavano un linguaggio oscuro. BlintanaMatnan!
Mi è venuto in mente più volte Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (Bergman, chi era costui?), mentre guardavo su Netflix – e su un tablet – Storiadi un matrimonio (Marriage Story) di Noah Baumbach.
Ken Loach (1936) ha l’età per aver fatto parte del Free Cinema inglese, che mutò insieme ai cosiddetti Angry YoungMen l’orizzonte britannico delle arti.
Dobbiamo preoccuparci per Bernadette (Cate Blanchett), già precoce genio dell’architettura, che è una forty something in sonno lavorativo da vent’anni e forse al culmine della sociopatia in quel di Seattle?
Ne La bomba (Feltrinelli), Enrico Deaglio nota che il Volonté di Indagine su un cittadinoal di sopra di ogni sospetto assomiglia fisicamente al commissario Calabresi – il film, va precisato è stato girato prima della morte di Pinelli e senza la sfera di cristallo.
Se penso ai vecchi film di guerra che vedevo da ragazzino, titoli come Il giornopiù lungo (1962), lunghissimo pure al cinema, corale e in severo bianco e nero, li ricordo come trionfalistici semi documentari, fatti per spiegare la guerra mondiale a chi non l’aveva combattuta, oppure vissuta.
È cambiato sul serio il clima sulla crosta terrestre negli ultimi vent’anni, se è vero che – fermo restando il medesimo crimine e aggiungendosi una nuova accusa – l’ottantenne Roman Polanski dall’Oscar della pace del 2002 per Ilpianista è passato a esser boicottato nei cinema francesi dove si proietta L’ufficialee la spia.
Bong Joon Ho (Daegu, Corea, 1969) è stato esplicito: cari spettatori e critici, evitate di raccontare la tramadel mio film. Non è del tipo che, se entri in sala e dici ‘Bruce Willis è un fantasma!’, lo mandi in fumo.
Sarà perché il tema dark del film, il suo tenebroso cuore, è un gioco sadico tra vittima e carnefice nel Labirinto senza Specchi; sarà perché Donato Carrisi, autore bestseller, per la sua seconda volta da regista sceglie una pista horror onnivora e densa di citazioni, dal noir Usa di serial killer alle sue declinazioni più intellettuali o più splatter; ecco, sarà per questo ma il game cinefilo per L’uomo del labirinto, prima ancora di provare a indovinarne il finale, diventa il cimento di elencare i remake, i prestiti e le strizzate d’occhio in un campionario di tortuosi e innumerevoli spaventi, sia visivi che mentali.
L’età giovane, al posto di Le jeune Ahmed – più prudente titolo per il box office italiano – è il nuovo tranche de vie licenziato da Jean-Pierre e Luc Dardenne: con vista assai acuta e efficace ritorno a un’estetica da camera a mano, i fratelli seguono da molto vicino, pedinandolo, quasi succhiandogli l’aria attorno, il loro protagonista.