
L’età giovane, al posto di Le jeune Ahmed – più prudente titolo per il box office italiano – è il nuovo tranche de vie licenziato da Jean-Pierre e Luc Dardenne: con vista assai acuta e efficace ritorno a un’estetica da camera a mano, i fratelli seguono da molto vicino, pedinandolo, quasi succhiandogli l’aria attorno, il loro protagonista.
Tranche de vie o vita al trancio: la forza narrativa dei Dardenne sta nel negarci (e negarsi) il prima e il dopo alla storia di Ahmed (Idir Ben Addi), tredicenne di origini magrebine nel Belgio d’oggi, cui la fede islamica suggerisce di uccidere un’insegnante vista come nemica. Partono cioè su una situazione già definita evitando di illuminarla a ritroso con spiegazioni storiche, sociologiche e psicologiche, e chiudono senza davvero scrivere la parola fine, con l’ultimo ciak battuto come se fosse terminato il timing di una seduta analitica. In mezzo c’è la libertà apparente del racconto.
Libertà apparente: qui sta l’ulteriore forza e il fascino del film dei Dardenne. Sanno farsi essi stessi spettatori, capaci di stupirsi con noi della progressiva chiusura al mondo del ragazzino. Dichiarano quasi con civetteria – se non fosse così esasperata e contemporanea la vicenda narrata – una sorta di impotenza creativa, l’impossibilità di spingere il loro personaggio fuori dal cerchio soffocante dei gesti rituali e dai glaciali passaggi logici che nutrono la sua determinazione omicida. L’innocenza del loro occhio, che ha come corrispettivo l’innocenza in pericolo di Ahmed, diventa così la misura della tragedia.
Prix de la mise en scène a Cannes 2019, ritirato con pieno merito, l’undicesimo lungometraggio dei fratelli Dardenne ha la lucidità e la misura degli esordi. Chapeau.