Il Colibrì di Veronesi raccontato dal barista che tira giù la clèr

Nel florilegio di stroncature de Il Colibrì, lo stregato Colibrì di Sandro Veronesi, mi ha colpito quella firmata dal professor Romano Luperini, sul blog laletteraturaenoi, e in particolare questa frase:

La lingua (del Colibrì, ndr) è quella che si può sentire ogni giorno in ogni bar della capitale. Come non esiste alcuna possibilità di dramma, così il linguaggio che esprime tale situazione … ignora qualsiasi apertura al pathos e alla tensione.

È per me uno degli sputi più riusciti nello Strega, centrato davvero, come un tappo finito nella botte del Macallan: unisce nella consistenza vischiosa, come ai vecchi tempi, significante e significato. Al bar del ribasso.

Cioè: i temi del Colibrì – cioè: il meglio di Kafka, Proust, Pirandello e Freud – shakerati e affrontati con nonchalance post moderna – finiscono scritti, per una sorta di legge del contrappasso, in maniera insignificante se non sciatta.

Uno fa: l’ha detto il solito professore. Uno vale uno. Nessuno e centomila. No, no, aprite il romanzo. Si nota a occhio nudo. Anzi noi estremizziamo: non è un avventore qualsiasi del metaforico bar che parla lì dentro al Colibrì, ma il barista stesso, un barista ubriacato dalle sue supposte capacità di entertainer.

Un barista – siete avvisati – da Masterchef che raccoglie svelto gli ingredienti del suo cocktail qua e là, come spiega Veronesi con sussiego da secchione nella chilometrica nota finale del romanzo. Lunga quanto un capitolo.

È del resto una lezione di vita la ricerca che ha portato al grande volo immobile del piccolo uccello – detto sorridendo, e sfiorando una volgare battuta sessuale.

Sono nominati Fenoglio e Joni Mitchell e… Beckett. Beckett. Proprio lui. Ficcato nel tumbler. L’abbiamo scritto qui tra due punti fermi perché il nome cada meglio nella pagina – è un espediente che usa anche lo stregato Veronesi.

Ora però vi spiego in prima persona una cosa per me essenziale: non so se sia stata mai teorizzata, ma ha a che fare con l’orecchio di un lettore medio (il mio). A me sembra che, nel campo della fiction pura, esistano pressapoco due tipi di romanzi. In un tipo, la storia è raccontata attraverso la forma cioè dal modo in cui è scritta (senza poi troppo bisogno di essere barocchi o baricchi); nell’altro tipo, la storia sembra raccontata da qualcuno (un barista) a un altro (un avventore).
Bon, direbbe Baricco. Riaprite Il Colibrì, una pagina a caso, e giudicate voi.

La narrazione del barista non è per forza pessima – per esempio caratterizza i 2/3 dei tanto osannati Gialli Sellerio -, anzi a volte è preferibile a gaddismi manganelliani con arbasinamento a destra.

Pazienza poi se questi adopera le cosiddette accoppiate chewing gum, ossia quelle parolette che spesso si appiccicano insieme nella comodità del luogo comune. A proposito di luoghi comuni, apro davvero a caso su un “selvaggio tratto di costa”, un “casale diroccato”, un “elegante buen retiro”, presi dall’esordio di uno dei capitoli più intensi, Gloomy Sunday, portando esso con sé “stringenti impegni” e una “accusa infamante” e così via, ma come cavolo doveva essere il casale, se no? E l’accusa?

Dai e dai, comunque, da uno Strega, bis per di più, uno che ha fatto pari con Paolo Volponi, l’altro Strega bis, non ti aspetti tanta automatica scrittura colloquiale, soprattutto se si pone sotto certi chiari di lumi. Beppe, Joni, Samuel, Federico, l’amico fragile Fabrizio, mancasse mai qualcuno…

Bon. Quando abbiamo aperto il Colibrì non ci saremmo stupiti se si fosse intitolato Il Colibrì raccontato da un barista che sta per tirar giù la cler del locale a un avventore che va di fretta. Dite se esageriamo.

Le parti stilisticamente più rigogliose del racconto, gonfie di prosa e di immagini da romanzo d’antan, sono per paradosso le lettere scritte dal protagonista, l’oculista Marco Carrera, al fratello e all’amata mai baciata (e viceversa). Ma va anche peggio.

Le prime sono vergate in un linguaggio che definirei “alto burocratese stoico” (manca solo che vengano aggiunte qua e là delle visure catastali), le seconde in un “Dio come ti amo, da Modugno ai neo melodici”.

Dopo il povero Moravia, per andare alla storia della letteratura italiana, il cosiddetto “romanzo dell’intellettuale”, feticcio degli anni Settanta, è stato decisamente portato, per rimanere nella metafora baristica, a farsi le pippe nei cessi del locale.

Comunque. Un altro professore, Emanuele Zinato, sempre nel blog nominato sopra – che ho dunque infilzato ai miei preferiti – se la prende con una dichiarazione di poetica di Veronesi, felice al Ninfeo: “sono un italiano vero” (cit. da Toto Cutugno).

Infatti: il Carrera è il solito soggetto cristiano borghese nascente e senescente che assiste al tramonto di sé e dell’Occidente, imperturbabile (seppur turbato) dai tempi della crisi della filosofia nella seconda metà di due secoli fa, e della crisi del romanzo nella seconda metà del secolo scorso. Non ci si stupisce se dallo sciacquone crudele del bagno del bar, della vita e della storia, lui, l’epigono pipparolo, venga letteralmente travolto.

Arriva infatti un momento per il lettore in cui gli avvenimenti e più propriamente le disgrazie che occorrono a Carrera in un numero non sterminato di pagine – in un avanti e indietro temporale che coinvolge pure la famiglia d’origine e il padre designato come Probo – sono troppe.

Sembra quasi che lo scribacchino della zia Julia di vargasiana memoria abbia avuto intenzione di alzar l’audience con una strampalata raffica di colpi di scena.

Tutto questo prima di capire che l’oculista-italiano medio è un parente (wannabe) del Giobbe di Joseph Roth… be’, per accorgercene, però, abbiamo dovuto vederlo scritto da qualche parte. Giobbe. Roth. Joseph. Ok.

Il peggio del Colibrì, uccello mortalmente vivo nel suo voletto da fermo – e secondo ossimoro stregato e affettato dopo il Caos che era Calmo – converge e precipita nel politically correct del finale, con la nipotina-bambina che va oltre i gender e oltre i nazionalismi, è bianca nera e gialla, e riscatterà (si spera) il mondo, insomma una specie di Futura di Dalla.

Nulla di più di quello che scoprirete voi possiamo dirvi sulla morte del Carrera – noi ci siamo stoppati prima. Prevediamo al momento, avendone intuito i preparativi, che sarà abbastanza a la page, ossia per eutanasia.

Ecco invece un prelievo tipo urine tratto da uno dei capitoli sulla bambina, per dirvi perché abbiamo riposto poche speranze su di lei per salvare, se non l’universo, almeno il romanzo.

È mia nipote – dice, sottovoce – si chiama Miraijin. Ha cinque anni e mezzo. Dove sono io è lei. Sempre. Il mio nome di battaglia e Hanmoku per via di quest’amaca, dove dorme lei. Vedi?…

Miraijin. Pronipote di Probo. Il racconto del nostro barista prende una lentezza ieratica, la voce diventa roca, rallentata dalla virgola dopo “dice”, prima di esaltarsi nel “sempre” agli arresti domiciliari tra i due punti fermi. Sì, c’è l’immagine (ironica?) del nonno/amaca, ma quanto si prende sul serio oggi l’ex ragazzo Veronesi?

Mentre esclamiamo ’sticazzi (1), ci chiediamo: è lo stesso scrittore dei B52 e del Treno allegro? Oppure è quello che (D’Orrico scripsit) strofinava per buon augurio la prima pagina di Caos Calmo sulla tomba di Kafka a Praga?

Boh (variazione dubbiosa di Bon). Stasera proveremo a finire il libro, è quasi ora di tirar giù davvero la cler e di farsi un goccio. Di Strega? Ma nei bar veri lo vendono ancora?

Note (1) O come scrive Gian Paolo Serino su Satisfiction: “certo sarà indigesto ai più, perché a nessuno piace essere ritratto in maniera spietata, ma (Il Colibrì, ndr) è un cazzo di capolavoro”. O un capolavoro del cazzo?

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