LA POESIA PERFETTA. Andando a bottega da MAURIZIO CUCCHI

Come l’ultima sentinella dell’Occidente o un nonno premuroso ma severo, o forse solo equanime, Maurizio Cucchi il poeta legge tutti i giorni sulle pagine milanesi de la Repubblica i versi dei poeti nascosti, quelli della domenica, quelli come noi. A ogni debuttante allo sbaraglio, sia colto o sia naïf, pubblica un pezzetto dell’opera, e fa una quieta ma magistrale osservazione.

Cose così. Qui siamo troppo antichi di linguaggio, anzi anticati. Le metafore appaiono abusate, come del resto le parole (non scriva più: tramonto, fonte sorgiva, sogno, lume). Stia attento al metro perché può sfuggire di mano e non vada a capo così spesso: gonfia d’enfasi il testo, ma poi sembra che uno abbia il singhiozzo. È troppo prosastico il suo componimento, no è troppo lirico, no è così così. Si fidi di sé, si fidi di meno. Tira mola e meseda, come si dice da queste parti.

Tuttavia ciò che forse mi colpisce di più nel flusso di componimenti analizzati nella Bottega è la loro pacatezza di fondo, la normalità estrema, l’adesione, quasi, a un’ennesima generazione di chissà quale scuola lombarda: non giungono infatti sulla scrivania del poeta-giudice testi di nuovi Hoffmann in delirio, né particolari fiammate d’avanguardia, paleo o post, non parole essenziali alla Paul Celan o sutra vorticosi tipo Wichita e strida di Alici che disperate tentano un varco oltre lo specchio. Tira mola e meseda.

Alla fine, modificando i testi dei lettori secondo i desiderata dell’esperto Cucchi, possiamo arrivare a una dichiarazione di poetica (di Cucchi, certo) oppure, meglio, a un testo perfetto. È fatica inutile però cercare di mutare in questa sede le liriche di uno zio Mario di Bergamo Bassa o di Ida di Biassono studentessa in Lettere: i loro testi, qualora fossero corretti, finirebbero per assomigliare a una poesia del maestro in cattedra.

Prendiamone dunque una a caso dall’ultima raccolta cucchiana, forse la migliore dai tempi di Glenn: Sindrome del distacco e tregua (Mondadori).

Ci si abitua, è… normale. Si gode
di una sopravvivenza minuziosa,
in un farcela giorno per giorno, strappando
ogni giorno come un frutto, come
un regalo in più da far fruttare.
Prezioso, inestimabile, ed è solo un giorno
sottratto al proprio nulla.
In una città deserto per filosofi.

Forse, penso ora con malizia, qui il maestro vuole dirci che, in questo trantran di giorni neri privi di respiro intellettuale, ha una sicurezza sola: la rubrica su la Repubblica. Mica è poco. Ma, lo preghiamo, non usi troppo parole apparentemente poetiche consunte dall’uso: nulla e deserto. Tenga pure un frutto. Via però i puntini di sospensione, quelli sono sempre infantili.

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