PADRE TUROLDO. La libertà umana e il LIMITE DI DIO

Alcune volte, mi capita di pensare a quanto borghese e milanese, e naturalmente senza dio, sia stata la mia vita, pur trascorsa sui supposti bastioni dell’anticonformismo. Mi capita allora, e poi spiego perché, di recitare tra me e me a mo’ di preghiera qualche verso di Padre David Maria Turoldo (1916-1992), prete, poeta e filosofo, resistente antifascista e illuminata figura post conciliare, e con quei pochi versi ne ricordo la lunga, coraggiosa esistenza, le varie facce dei suoi talenti, e provo a spiegare insieme la mancanza o la miseria dei miei.

Penso, dicevo prima, alla religione già sbiadita, dei miei padri e a quella che cancellai io dalla mia vita. Poiché la foga dei tempi, per un ragazzo evoluto degli anni Settanta, consisteva nell’abbattere – lo imponeva quasi – tutto ciò che era grande e potente. Gli adolescenti come al solito non sopportano la grandezza (Freud dixit) e dio, fatti i debiti calcoli, è una delle entità più grandi a cui fare abbassare la cresta, con o senza la crudele pietas nietzchiana.

Ora, soffro, patisco, nel senso che registro con una sorta di dispiacere, i miei incontri mancati con le concrete chiese di dio: niente oratori di quartieri popolari in cui ferveva ai tempi un esotico, per me, abbraccio tra cattolicesimo e impegno sociale. Vi trascorrevano, per fare un nome, proprio figure come Turoldo, l’uomo di Nomadelfia, prete curiosamente vezzeggiato (a corrente alterna) dai ricchi milanesi; e intanto si preparava, sempre in luoghi spartani ma accoglienti, la fortuna politicamente ambigua di Comunione e Liberazione.

La distanza da dio non toccò il mio grande amico e fratello C., che era figlio di operai, e ci fu distanza all’improvviso anche fra me e lui: C. era un leader nell’oratorio sotto casa dove giocava a calcio sì, ma cercava pure risposte – e intercettava la predicazione di Turoldo in incontri che mi rimasero misteriosi e per cui lo invidiavo; no, io allora, senza graffi sulle ginocchia, stavo nella bella casa in zona Fiera, reduce da una comunione e cresima buttate in farsa, ricevute nelle stanze di un istituto per future classi dirigenti, il Leone decimo terzo. Non faceva nemmeno parrocchia, il Leone: gesuiti, rette alte, niente commistione sociale, il silenzio regnava sotto le croci moderne della chiesa e del complesso di edifici che pareva una costruzione in Lego fatta di tanti mattoncini rossi.

Mi sono astratto, in questi giorni di rosari sventolati nei comizi, dalla volgarità infame dei capopopolo, cercando la concretezza che mi è sempre mancata in Turoldo poeta, e in particolare torno al suo libro di commiato, che appartiene alla collezione di poesia della Garzanti; spesso occhieggia, il libro del 1991, a pochi euro nei negozi dell’usato (invenduto), come il reperto di un’epoca lontana. Non sono bellissimi questi versi, ma forse capisco che cosa vogliono dire.

È la Notte la mia luce e la mia gioia
vera fede è il non conoscerti
sapere solo che Tu mi conosci
fa di me la mia essenza.

Per spiegarmelo meglio ricopio la risposta a un’intervista, rilasciata da Turoldo quando già il cancro al pancreas aveva minato la sua aspettativa di vita. Disse Turoldo:

Io penso che il dolore, la malattia, la morte, non siano soltanto il dramma dell’uomo, ma anche il dramma di Dio. Nel senso che il limite di Dio è la libertà dell’uomo. Mi spiego. Dio ha un amore tale per l’uomo, per la sua creatura, che non può non lasciarla libera…Perciò se tu vuoi che per ogni caso Dio intervenga, tu annulli quello che si chiama il gioco delle cause seconde, gli spazi per la libertà umana.