
1. C’è una foto, che non riesco a ritrovare sul web – e forse non per caso, appartenendo a un tempo davvero perso – di Dario Bellezza e Gabriella Sica che vanno al festival di poesia di Castelporziano.
Credo fossero in autobus o in treno – è tutto nero Bellezza, ma ha un fragile sorriso. Gli occhialoni, enormi, ai lati tradiscono la gran fuga delle diottrie e le lenti sono così spesse che sembrano addirittura scure. Questa foto esiste o potrei essermela inventata, non la riconosco però in quella qui sotto, scovata per caso sul sito di Nuovi Argomenti e datata 1977. Castelporziano è del 1979.

Lo rivedremo, anni dopo, Dario Bellezza su un altro palco: al Maurizio Costanzo Show dove chiede che lo Stato non gli neghi una terapia anti-Aids cosiddetta alternativa, che lo lega, con apparente successo, a una macchina costruita da un moderno Cagliostro. Forse si trattava, mi viene in mente adesso, di una macchina desiderante come quelle descritte da Deleuze e Guattari ne l’Anti-Edipo; una macchina che rilanciasse al cielo i desideri sopiti del poeta e commutasse lo spleen della città Caput Mundi in un trionfo d’amore. Povero Bellezza, ora angelo di polvere.

2. Finita questa prima parte edificante, mi è venuto in mente, qualche giorno dopo, ritrovandone un libro, di scrivere una seconda parte non edificante, che si intitola “Quello che veramente penso di Dario Bellezza”. Perché per un lettore medio, vissuto sbirciando nei libri di poesia, in fondo è il percepito che conta, e che cambia di stagione in stagione (della vita).
Quelle in alto erano le parole della nostalgia. Di un consumatore – io – che oggi si fa venir buono, in poesia, persino Dario Bellezza.
Poniamo però che io possa tornare indietro all’adolescenza/gioventù, a quel passo della vita in cui con arroganza si capisce tutto: che cosa mai pensavo esattamente di Dario Bellezza quando a fine Settanta scaldavo i banchi della Statale? Ma ogni male possibile e con la lettera minuscola. Che era l’incarnazione del Kitsch nell’accezione più volgare e deleteria e, per questo, una sorta di fratello maggiore di Renato Zero (Malgioglio non esisteva ancora, ma EroZero era già un lp a modo suo classico).
Con gli occhi del passato, rivedo il nostro angiolone romano, precipitato dal Paradiso alle Malebolge, di folta chioma e guancia grassa, recitante querulo la parte del maudit fuori tempo massimo. Rimbaud, Baudelaire, ma dài, ancora? Non c’era già stato pure il Gruppo ’63? Sanguineti/Giuliani/Balestrini sembravano i nipotini pestiferi di questo ultimissimo dei decadenti, sito tatticamente accanto a una stufetta da inetto russo dietro la funeraria porta imbiancata di una Roma che fu, “in via Pettinari, lungo la spina di ponte Sisto che penetra fino ai Giubbonari” (Roberto Deidier).
Leggendo versi con lo sciarpone e il cappellaccio o il cappelluccio sulle ventitré – da poeta di cabaret, tipo Felice Andreasi che però portava il basco -, si poteva irridere il pupone déraciné sia da una postazione borghese sia da una proletaria. Il periodo era iper politicizzato – si passava il reale in una griglia marxiana/freudiana – e Bellezza era prigioniero di se stesso in primis e delle sue fiammate di misticismo amoroso, schiavo di credo e bestemmia, incerto tra maledire il Dio che latita o perdersi direttamente nei vorticosi gironi della carne e nella droga che ogni anelito surroga…
Ecco come chiude per esempio un’affranta terzina, A Pier Paolo Pasolini, da Invettive e licenze (1971):
Dio! Non attendo che la morte.
Ignoro il corso della storia. So solo
la bestia che è in me e latra.
Ecco. Questo infelice principe del Kitsch, narcisista e intento di tutto l’orbe terracqueo a cogliere solo i sommovimenti del suo self ipostatizzato, aveva ai miei occhi pura la colpa di questa brama mal riposta – quasi latrata – per ogni sorta di Assoluto, il quale Assoluto però era allora fuori conio, insieme al sentimentalismo lancinante degli egotisti, scacciato a bastonate da politica, filosofia e avanguardie letterarie varie…
La sgangherata stereotipia del personaggio Bellezza veniva addirittura peggiorata dall’influente eco delle scorribande burine in Alfetta di Pasolini e dai riflessi candidi provenienti dai soliti cessi di Penna, sognati in tralice benzodiazepinico. Parentesi. Che io, ai tempi, avessi un pregiudizio omosessuale? Anche fosse, quanto era più contemporaneo a quegli anni non dico Zero (che si rivelò un truffatore qualsiasi) ma Allen Ginsberg, e David Bowie, che era camp semmai?
Tutto questo percepito era solo per… sentito dire, senza aver fatto davvero la prova del testo di Bellezza, sotto forma di romanzo maledetto o di verso ben cucito, scritto in un piatto italiano da salumiere rinforzato di paroloni con la maiuscola – questo insomma sembrava a me, onnisciente ragazzo, Bellezza, prima che si ammalasse e finisse definitivamente nel precipizio diventando una statuina da presepe del Maurizio Costanzo Show.
Stanotte, nella vecchia casa dei miei genitori, ho trovato una copia del tardo Proclama del fascino (Mondadori, Il nuovo Specchio, 1996) e l’ho aperta per vedere che effetto mi faceva rileggere (leggere?) Bellezza: mi sono concentrato sulla parte centrale, quella dei brevi componimenti molto incisivi (Domenico Porzio scripsit?) intitolata Il Nulla. Ecco appunto. Mi sono sentito di nuovo ragazzo.
Ma forse è solo ferocia infierire sul poeta che scrive quando è ancora still alive and kicking (da Libro d’Amore):
Vecchi discorsi, logori, remoti,
che tu con i tuoi denti adolescenti
mi spegnevi in una bocca piena di saliva.
Il tempo era ancora
un carnefice che non dava paura.
Oppure, tentato per una volta dal “noi”, quando è già da un po’ sprofondato nell’Ade, dopo aver confuso tra di loro con enfasi filiale madri e padri piuttosto nefandi, direbbe Arbasino, ed essere precipitato dal volo notturno dei deludenti amori (da Libro di Poesia):
Noi fummo la lucente generazione;
le periferie, le borgate furono
il nostro regno, la fortuna ci arrise
come volemmo, fra case contadine
e parrocchie cattoliche solatie.
Siamo qui ora davanti al sonno
che ci prenderà lentamente
per lasciarci in un ultimo gemito
di follia che non vuol dire ancora
ancora di salvezza.
Amen. Qui invece, come antidoto al mio percepito, c’è una bella lettura di Bellezza, con la topografia della sua Roma, firmata dal poeta Roberto Deidier
Credit: Massimo Consoli