
C’era questo volumetto edito dalla Newton Compton, che allora era una casa editrice di paperback a basso costo, mal tradotti a volte (spesso), ma intelligenti – classici fuori diritti e cose “un po’ avanti” rispetto ai tempi. Mi capitò tra le mani, tredicenne, Bob Dylan Blues, Ballate e Canzoni (prima edizione febbraio 1972, costo milleduecentolire).
Prefato da Fernanda Pivano, allora musa italica della cosiddetta controcultura, e tradotto da Stefano Rizzo, conteneva una scelta di pezzi dagli album usciti fino ad allora – niente Basament Tapes, stop sulle locuste che friniscono dalle parti di New Morning.
Sembrava, tra parentesi, leggendo la Pivano (svampita e velleitaria, già allora), che la carriera di Dylan fosse terminata, oppure che si fosse irrimediabilmente accartocciata da qualche parte, chiusa la più propositiva parte politico-messianica. Invece, subìto per contratto discografico un album apocrifo per lo più di cover, Bob ripartì poi alla grandissima con Planet Waves e Blood On The Tracks.
Comunque. In nettissimo anticipo sulle polemiche che avrebbero investito il Nobel prize winner di Duluth, il volumetto faceva parte senza alcuna remora di una collana di poesia che contava altri nove titoli: Lorca, Machado, Prévert, due Jiménez, Apollinaire, un fritto misto russo, Tagore e Mao (sic, lui in persona, il grande timoniere).
D’istinto, ero portato a leggere i testi della trilogia elettrica, e a pag. 198 partiva uno dei più compulsati, Desolation Row: tali testi erano massimamente oscuri e forse mi attiravano per questo. Preciso che leggevo le lyrics come fossero poems – forse era il mio primo libro di poesie – in assenza di musica. Di Dylan avevo un unico Lp regalato (da qualcuno che non lo conosceva) a mio padre, Another Side of Bob Dylan. Sentivo per lo più Ballad in Plain D e To Ramona, una perché è una pièce enigmatica, l’altra perché spudoratamente romantica.

Comunque. Non capivo niente di quei poems, se non che a occhio mi piacevano di più delle poesie imparate a scuola – ma che cavolo si leggeva alle medie? Non lo ricordo… forse Carducci e Pascoli? Probabilmente mi ero già scontrato con Howl, il lungo ululato di un signore pelato con la barba, Allen Ginsberg, contenuto in un Oscar intitolato Jukebox all’Idrogeno (Mondadori, 1969, prefato e tradotto da… Fernanda Pivano!).
Comunque. Erano i due versi d’inizio di Desolation Row i più inquietanti: sembravano a esser sincero con me stesso, o almeno con il me adolescente, una stronzata. Stanno vendendo cartoline dell’impiccagione/Stanno dipingendo i passaporti di marrone... (la rima baciata nella versione italiana peggiorava l’effetto).
Ogni tanto il volumetto mi capitava tra le mani, ogni tanto tornavo al distico che inaugurava pag. 198. Un giorno, non so perché, non so come, era già accaduto qualche mese prima con un Lp, Sticky Fingers dei Rolling Stones – si era rivelato all’improvviso dopo mille ascolti annoiati, fatti per dovere – un giorno, le parole spontaneamente si aprirono: capii come per miracolo che cosa significavano, e che Dylan non poteva dirmelo o dirlo meglio.

A scuola di Beat Da ragazzetto, in anni post ’68 avevo una precoce e naturale attrazione per la cultura non convenzionale. Chi più chi meno cercava nell’arte – intesa come espressione di un luogo nobile dell’anima – il riscatto e la via d’uscita dal corrotto mondo degli adulti che stava lì di fronte, pronto ad ingabbiarci (cfr. The Wall di Rogers Waters).
Nel supermarket della cultura alternativa brillavano la musica rock (che fu scorciatoia e maestra di vita) e la letteratura beat, entrambe con vettore deciso che portava alle lande angloamericane. Francesi nisba.
In un altro irrilevante pianeta, il Gruppo 63 (e che cos’era?) sarebbe stato combattuto da un riflusso di giovani neo-orfici chiamati dall’Ade a colpi di citofono. Ma prima di scoprire l’Italia – magari con l’antologia La parola innamorata. I poeti nuovi (1976-1978), Feltrinelli – io e altri “americani di spirito” sapevamo solo di antologie di poeti beat. Per semplificare, dei conterranei potevano far colpo Alesi Eros e pochi ultramarginali.

Esempio: ho ritrovato tra i miei vecchi libri Poesia degli ultimi americani (Feltrinelli 1963, firmato, prefato e curato da… Fernanda Pivano!) e acquistato alla prima edizione economica, nel novembre 1973. Era una compilation, che conteneva un lungo fogliaccio mobile su cui era spalmato l’interminabile assolo sulla Bomba di Gregory Corso – letto in un recital, forse faceva effetto, così invece non si capiva un cazzo se non che finiva con scimmieschi suoni onomatopeici. Ricordo che procedevo, in mezzo ai nuovi maestri, sospeso tra entusiasmo e cautela, accettazione e ripulsa, aiutato e confuso pure dalla raccolta Giovani poeti americani (Einaudi, 1973, a cura stavolta di Gianni Menarini).
Al termine di un periodo di decantazione e dopo l’espulsione dal mio Pantheon di tutti i poeti più scamiciati, scazzati e ubriachi (via subito Corso e Kerouac), salvai un manipolo di prodi a cui rimasi fedele negli anni.

Allen Ginsberg, perché ne intuivo il respiro potente, nonostante non mi fornisse identificazione fisica e agitasse troppo lo spaventoso vessillo della pazzia (cfr. Kaddish e l’invocazione a Carl Solomon a Rockland, nella terza parte di Howl); Lawrence Ferlinghetti, perché anche se dimesso era un puro e andava a spasso in tutta umiltà surrealista per le sue Coney Islands cerebrali; Ed Sanders, che mi folgorò nella luttuosa poesia Cemetery Hill ed era il capo di The Fugs, band politica, dal suono feroce quanto volutamente dilettantesco; il misconosciuto Bill Knott, infine, ribattezzatosi Saint Geraud, di cui mio padre mi portò in regalo da New York una preziosa raccolta firmata sulla cover – poiché aveva cambiato nome, Knott aggiunse anno di nascita e anno di morte, 1940-1966.
Knott-Saint Geraud, che tradussi da me a fatica, non divenne mai famoso in Italia, e non ne seppi più niente finché non trovai la vera data di morte (2004) su Wikipedia. Le sue Nights of Naomi (1971), però, erano trasognate e avevano un’intensità infantile che mi comunicava uno stupore senz’ansia (ho guardato nello specchio prima di nascere / e non ho visto nulla).
Queste – va precisato alla fine di questa divagazione – rimasero delle cottarelle perché per me i Settanta furono gli anni del grande amore per Dylan, più tardi assai meritatamente Nobel prize winner, e per le sue indimenticabili, pirotecniche, irridenti, sarcastiche e sapienziali parole. Words con o senza music. Dall’autostrada 61 alle porte di un heaven per senza legge, che si scherniscono, come Dylan in Pat Garrett, sotto irridenti nickname. “Come mi chiamo io? Che domande”. Alias, chi altri?

IL LIBRO Bob Dylan Blues, Ballate e Canzoni, Newton Compton. Altro su Bob Dylan, in Idiotwind, qui
Bel post, come quasi tutti. Dovremmo essere coetanei, stessi innamoramenti precoci, stesse impasse. Io Corso non lo gettai, anzi, ma non mi piaceva così tanto Ginsberg. La Parola Innamorata rappresentò qualcosa, ero (e sono, anche se è sparito da qualche anno) amico di uno degli autori, scrivevo pure io… altre storie, alcune scritte, altre solo ricordate.
Bien à toi.
Se vuoi ci scriviamo.
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Sorry Guido ti ho letto solo adesso, ho un po’ lasciato questo blog per http://www.allonsanfan.it
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