
La riedizione di un pamphlet di Cynthia Ozick, nell’anno in cui Anna Frank avrebbe compiuto i novanta (e ne sono passati settantacinque da quando fu scoperto il suo rifugio).
Di chi è Anne Frank? di Cynthia Ozick, apparso per la prima volta nel 1997, sul magazine New Yorker, e da poco riedito da La Nave di Teseo, andrebbe volantinato agli angoli di strada, e postato in ogni ansa di quiete del web, perché è una lezione di lettura di una realtà complessa, mentre mira a liberare Anna Frank del personaggio assolutorio e consolatorio che le è stato costruito addosso.
È stata una semplice adolescente in crisi, nella mistificazione delle coetanee americane, come la dodicenne Cara Wilson, ed è stata la figlia incompresa dal padre Otto, cauto e timido fino all’ottusità nel gestirne l’eredità. Ma Anna Frank è stata tradita pure dallo scrittore Meyer Levin che capì la voce del Diario, ma finì per confondervi la sua, e soprattutto (in termini di pubblico raggiunto) dal testo teatrale e dalla sceneggiatura cinematografica di Goodrich-Hackett: furono pronti a raccontarla all’America degli anni Cinquanta come la ragazza che in fondo credeva nella bontà dell’uomo e a renderla protagonista di una storia in cui era stato nel frattempo smorzato (qui c’entra la lettura della Hellman) l’elemento ebraico.
La posizione di Ozick è chiara e invita a fermarsi “senza proiezioni” sul testo filologicamente ricostruito che ci troviamo in mano: “…il Diario in sé, nonostante grondi avversità ed emozione, non può essere considerato la storia di Anne Frank. Una storia non può definirsi tale se manca il finale. E poiché non c’è un finale, la storia di Anne Frank, nei cinquant’anni trascorsi dalla prima pubblicazione del Diario è stata censurata, distorta, tramutata, tradotta, ridotta; è stata resa infantile, americana, uniforme, sentimentale; è stata falsificata, volgarizzata, e, di fatto, spudoratamente e arrogantemente negata“.
Ma può Anna Frank non essere lo strumento malinteso di nessuno – “una proiezione” appunto – come rivendica Ozick nel pamphlet, e pure non andar perduta, dimenticata nella sua individualità di scrittrice e nel suo destino? Ha dato forse una risposta a questo quesito uno dei più grandi poeti del Secondo Novecento, Vittorio Sereni, in un famoso testo di Gli strumenti umani (1965). Scrive Sereni in Amsterdam:
Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale
continuavo a cercarla senza trovarla più
ritrovandola sempre.
Per questo è una e insondabile Amsterdam
nei suoi tre quattro variabili elementi
che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi
tre quattro fradici o acerbi colori
che quanto è grande il suo spazio perpetua,
anima che s’irraggia ferma e limpida
su migliaia d’altri volti, germe
dovunque e germoglio di Anna Frank.
Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.
La città olandese non è solo il luogo fisico dove Anna Frank si è rifugiata – un posto sulla cartina geografica – ma il suo specchio e quindi la sua rifrazione continua, di modo che, fuori dalla cronaca e dalla storia, ci troviamo a incontrare la ragazza ebrea nella mescolanza e nello scambio, davvero vertiginoso, tra spazio e tempo. Lo spazio che si perpetua, il tempo dell’anima che si irraggia. Per la lettura di Amsterdam sono in debito con l’analisi di Sara Montagnani.
Ecco dunque una prospettiva di libertà (poetica) per Anna Frank forse migliore di quelle estreme sottintese da Ozick – è preferibile non essere scoperta dal mondo – e, se ricordo bene, dal giovane Philip Roth. Ne Lo scrittore fantasma (1979), Roth la vede “grande”, salvata, forse inventata da uno Zuckerman febbrile: Anna Frank è Amy Bellette, costretta a vivere sotto copertura, estranea al suo stesso mito, per non contaminare le parole con cui è stata maledetta per sempre la Shoah.

Ma torniamo al punto, al centro e al paradosso apparente del discorso di Ozick: in realtà Anna, afferma la scrittrice statunitense, non parla mai della Shoah per il semplice motivo che il Diario finisce nel momento in cui la Shoah di Anna inizia. Arriva a Auschwitz nel settembre del 1944 e muore nel febbraio del 1945 nel campo di Bergen-Belsen, dove giunge dopo una marcia sfinente e crudele: le condizioni di Belsen sono terribili, non c’è cibo, si gela e, come la sorella, Anna si ammala di tifo. La malattia è letale per entrambe, muore prima Margot, subito dopo Anna.
A margine. Il Diario è il quinto volume della biblioteca scolastica Einaudi, i libri bianchi con le strisce rosse, prefazione e un po’ di note. Io trovo in casa, oggi, Il taglio del bosco di Cassola e La tregua di Levi. Non mi piaceva affatto la collana – ne veniva letto un libro all’anno, in classe, alla scuola media Colorni, dove studiavo alla fine dei Sessanta – dichiarava infatti la mia minorità. Non che leggessi altro alle medie ma preferivo già – per motivi a loro volta infantili – i Coralli che erano rilegati e avevano una bella copertina bianca e lucida. Trovo su una bancarella una copia del Diario del 1966, tradotto da Arrigo Vita e spiegato da Natalia Ginzburg. Lo leggo come se fosse la prima volta, senza preoccuparmi se ho in mano l’edizione tagliata, emendata, pasticciata, o quella critica che è stata messa a punto faticosamente una volta vinti i pudori e le resistenze di Otto Frank (o del mondo intero?); mi accorgo che, pazienza, d’accordo su tutto con Ozick, eppure la filologia di fronte alla scrittrice Anna Frank è l’ultima cosa che conta.