
Le sculture di Giacometti mi ricordano, tutte le volte che ne vedo una, le copertine dei romanzi di Sartre, che leggevo da ragazzo, negli Oscar di tanti anni fa.
Uomini, donne e cani (forse) giacomettiani erano stati arruolati in blocco dagli art director della casa editrice. Mi ricordano La Nausea, in primis, e Antonio Roquentin, ma forse di più Matteo (Mathieu, una volta è tradotto anche il nome, un’altra no) nella trilogia inaugurata con La Morte nell’Anima.
Scrisse Blanchot – nel consueto pasticcio alla francese, con annusamento dell’Altro – che le figure di Giacometti non rappresentano ma rimandano al “…luogo della presenza non presente… della presenza nuda, che ha e non è nulla”. Chiusa sartriana che sarebbe stata sottolineata con un botto della voce dal professor Franco Fergnani (rileggere il suo Sartre, appena riedito da Feltrinelli): “Presenza della trasparenza umana nella sua OPACITÀ”.
Per ricordarmi della mostra ho scelto però un ritratto a matita di un fratello, legato alla giovanile stagione felice di Stampa.
Il tempo di Giacometti, Palazzo della Gran Guardia, Verona. Fino al 20 aprile 2020
