
In un vecchio libro di poesie, The Energy of Slaves, il libro della malattia, Leonard Cohen diceva più o meno: quando le cose andarono male/ non mi uccisi né mi misi a insegnare.
Vengono in mente questi due versi quando la voce del predestinato (non avevo scelta/ nacqui con una voce d’oro), voce ridotta a un semplice baluginare d’oro nel buio, recita/canta: No one to follow nothing to teach, in The Goal, prima canzone resa pubblica dell’album postumo Thanks for the Dance.
L’ha costruito, il nuovo disco, il figlio Adam con gli sketches, gli outtakes, i quasi demo, le poesie, i frammenti del precedente You Want It Darker e ha chiamato amici famosi ad aiutare, Damien Rice, Feist, gente di Arcade Fire e The National, a ricordare il padre in morte e in vita.
Anche perché Leonard Cohen sembra, nelle sue ultime parole, prigioniero ma anche a suo agio in una specie di personale Bardo, che si è costruito con la saggezza di tanti e ripetuti esili dal mondo, negli anni dell’isola greca e del monastero buddista, come in quelli del gran circo della fama (Chelsea Hotel).
È il Cohen della sprezzatura – vedi anche il titolo dell’album – a scandire ora le sue parole nel buio, in chissà quale buio, con un’atteggiamento di superiore distacco solcato dall’incredulità umanissima per lo spaesamento (quante volte ha usato ambiguamente la parola home) e dall’evidente e ironica constatazione dello spossessamento di averi e facoltà fisiche. Ne riparleremo, magari canzone per canzone.
Per il momento come scrisse Cohen a Marianne, la ragazza dell’isola (e della mitica copertina). Goodbye old friend. Endless love, see you down the road