
Una poesia inedita di Umberto Piersanti, che ne richiama una, giustamente famosa, La Giostra, del 2001, quasi vent’anni fa.
Jacopo ormai grande
Jacopo quasi non ricordo
tu che cammini
in fondo alla piscina
tra le bolle
elfo inconoscibile
e distante,
o avanzi dentro i campi
d’Abruzzo tra sciami
di cavallette
e le distanzi,
o ancora fermi l’acque
che al tuo piede s’arrestano là
sotto il Conero
ai Sassi Neri,
ora possente e muto
mi fissi,
così lontano,
Jacopo non ancora nato
che ogni corso mutavi
ed un’intera stagione
mi rapinavi,
e dopo venne il male
che il tuo viso perfetto
appena, appena piega
ma non incrina,
Jacopo delle corse
e dei dolori,
Jacopo del riso
e dello sconforto,
sei nella vita
quella svolta improvvisa
che non t’aspetti,
la tragica bellezza
che i tuoi giorni inchioda
al suo percorso
Umberto Piersanti Inedito Agosto 2019
Quando ho letto per la prima volta La Giostra di Umberto Piersanti ho notato la maestria con cui il poeta ha giustapposto alla moderna frenesia dell’incipit – il testo si apre su una scena di ottuso movimento urbano – l’immagine di un passatempo antico, un aggeggio dimenticato dal tempo, sperso e disertato dai giovani con lo scooter, dalle ragazzotte in jeans.
All’apparire di Jacopo, mi è sembrato di guardare la scena da lontano, da una calma apparente, ma di essere pronto ad accogliere la determinatezza del poeta a prendere su di sé la sofferenza, i gesti dell’alterità. Il poeta stesso, per una sorta di pudore, si ritrae un po’ discosto.
Non sono le belle poesie che salvano il mondo – e penso a quello dell’ingenuità e dell’infanzia – a cui appartengono antichi totem come la giostra, e pure il mondo non sarà mai salvato dai ragazzini, nemmeno da quelli che in qualche modo non cresceranno mai. Per questo, la giostra della poesia gira tuttora senza senso e ferisce a ogni giro il poeta-padre e chi legge.
Oggi mi arriva quasi per caso un dono, tramite un’amica vera: un inedito di Piersanti che sembra, che è, forse involontariamente, La Giostra vent’anni dopo, essendo un testo del 2019; il titolo è Jacopo ormai grande, e di nuovo appare nei versi, una trentina, il figlio amato e distante – la qual cosa, la distanza, è ribadita, come per voler meglio spendere la parola, in due versi che quasi solo quella contengono – e distante, e le distanzi…
Jacopo ormai grande è fatto di versi corti ma non concitati, anzi all’apparenza pacati, musicali della musica di Piersanti: in realtà, mentre li rileggo, sento che le immagini e le parole hanno preso una forma e un senso nato un passo dopo l’altro, alla luce di una fatica di scavo pressoché intollerabile. Sono delle parole di ricordo, parole utensili, le schegge verbali di un’ellissi che adesso mi pare incisa nella pagina.
La compostezza della poesia, la sua mondana esistenza in luoghi precisi, nominati (Abruzzo, Sassi Neri), non può trarre in inganno, il nitore apparente del componimento non modifica il buio da cui è emerso, e da cui in modo lancinante ci parla di una perdita e di una incontaminata ma disperante bellezza.
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