LA WOODSTOCK NATION e i baffi bianchi di DAVID CROSBY

David Crosby a Milano, il settembre scorso, concedeva l’antico repertorio, sereno e in apparenza non segnato dall’età. L’applauso ha lasciato il posto agli occhi lucidi per la doppietta finale degli encore: Ohio e Almost Cut My Hair, addirittura, cioè un bis duro per dire di una doppia irriducibilità, politica (la canzone contro la repressione di Nixon) e personale, proclamata con orgoglio a quasi ottant’anni, quasi non fossero appassite la vecchia rabbia e il sarcasmo, il desiderio di rivolta e la fede nell’utopia.

Partiamo da David Crosby, reduce di tante battaglie, e da due canzoni che solo per il timing non furono eseguite al festival di Woodstock (vennero scritte, una nel sangue, nel 1970), poiché è a tutt’oggi, volente o nolente, uno degli uomini sandwich di quel mitico raduno: l’appuntamento di 500 mila giovani nello stato di New York, che mescolò cinquant’anni fa, dal 15 al 18 agosto 1969, spettacolo e politica, un’idea di vita alternativa e la più significativa musica del tempo.

Mentre i 38 cd più supporti vari di WoodstockBack To the Garden (Rhino) ricostruiscono in versione completista e ‘affaristica’ l’avvenimento, noi qui prendiamo note sparse, leggendo il vecchio menu.

I Jefferson Airplane, Janis Joplin, i Grateful Dead, i Canned Heat di Alan Wilson, Johnny Winter, furono attraversati dalla corrente del blues rock psichedelico, il trend più visibile della tre giorni; CSN con o senza Y e il piccolo Guthrie (Arlo, figlio di Woody), con l’aiuto dei più prosaici Creedence Clearwater Revival, tolsero al country rock ogni svenevolezza e lo aprirono per sempre al cosmo; nella pattuglia degli outsider sciamani, che fecero impazzire la platea e il mondo, apparvero, a diversi stadi di grandezza, Jimi Hendrix – il più ribelle di tutti quando diede l’elettrochoc a The Star-Bangled Banner -, Ravi Shankar, Joe Cocker, Daltrey-Townshend degli Who, Santana, e Richie Havens, che sfornò in diretta, e proprio in apertura, l’inno Freedom. Libertà.

Notiamo che in tre show diversi venne cantata la dylaniana I Shall Be Released (Joan Baez, Arlo Guthrie, The Band); e ci fu infatti molto Dylan sotto pelle avendo l’uomo di Duluth inventato la poesia e la stessa grammatica lirica di una generazione, come confermato dal premio Nobel del 2016. Mancò Bob in persona, per motivi più o meno noti, come Lennon, gli Stones, i Doors e Zappa, ma Dylan andrà a fine mese all’altro festival, nell’isola di Wight – un nuovo cinquantenario in vista.

Country Joe McDonald suonò in due riprese I-Feel-I’m-Fixin’-To-Die-Rag con e senza la sua band, e per un caso, ma fu giusto così: quella canzone è il pezzo simbolo anti Vietnam, scritto come uno stralunato pezzo di cronaca. Due versioni ebbe anche la visionaria Wooden Ships: quella dei Jefferson e quella di CSN senza Y.

Dimenticata la controcultura, come si chiamava allora, appassiti i fiori hippie e le idee di peace&love, del festival rimane oggi un patto di coerenza per reduci – dal Crosby di cui dicevamo in apertura ai last men standing di quella stagione: impediranno fin che calcano i palchi di far diventare Woodstock un semplice e redditizio marchio commerciale, il Coachella del tempo che fu.

Ci piace ricordare, del resto, che quando in un processo chiesero all’attivista Abbie Hoffman, fondatore degli Yippie (scritto proprio così): Dove risiede? Lui rispose: Woodstock Nation. E in che stato è? It’s a state of mind. Da portarsi dietro con gioia o con tristezza come gli indiani d’America si portano dietro la loro idea di patria. Ecco perché la Woodstock Nation è così difficile da adulterare o cancellare e, se scomparisse, potrebbe risvegliarsi in qualsiasi momento.

Le foto di David Crosby sono prese dalla locandina del film D. C.: Remember My Name.

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