Breve nota sui FRANCHI NARRATORI FELTRINELLI e un ricordo di CATERINA SAVIANE

Una volta, per le storie molto autobiografiche, per i tranches de vie con supposto interesse sociale o di particolare bizzarria – ma sempre rilevante da un punto di vista per così dire antropologico – Feltrinelli ebbe la geniale idea di varare una sorta di collana-recinto, i Franchi Narratori.

Dal 1970 al 1983, uscirono 36 testi, il più famoso Padre Padrone del pastore sardo Gavino Ledda che vi raccontò la sua storia di analfabetismo e di orribile patriarcato contadino. Divenne pure un film dei fratelli Taviani. Al secondo posto (o forse al primo?) Alice: i giorni della droga.

Non è un caso quindi che io ricordi solo questi due, e Ore perse, che uscì nel 1978, un testo sulla noia e la stupidità di vivere a 16 anni – avevo a quei tempi poco più di quell’età – firmato da un’adolescente Caterina Saviane, figlia del celebre giornalista Sergio Saviane, quello che sfotteva sull’Espresso, dopo aver inventato il termine, i mezzibusti tv.

Ho dimenticato e forse non ho mai preso in mano nessuno degli altri volumetti che avevano cover in bianco e nero “sporco” del tipo foto da quotidiano della notte, definite da sottili titoli rossi. Scorro la lista dei 36: mi balzano agli occhi in sequenza storie di omosessuali, preti operai, pazzi e suicidi, contadini del sud finiti in fabbrica al nord, ergastolani, infermieri, genitori di bambini subnormali (sic), eccetera eccetera.

Non ho quasi più la sensibilità di capire che non si tratta di scandalistici e morbosi casi umani ma, per dirla come allora, di storie di vite ed esperienze che sono “spaccati” di una realtà storico-sociale in rapida evoluzione; i 36 sono infatti testi che si vogliono esemplari.

C’è notevole differenza con un caso umano proposto, per esempio, dall’attuale tv del dolore (e del crimine), che solletica il nostro serafico e annoiato guardonismo. Ai tempi dei Franchi Narratori esiste invece la convinzione-la supponenza-la speranza, almeno, che la lettura delle realtà più scabrose ci migliori, non già tramite l’arte, troppo facile!, ma mediante la forza stessa del fatto documentato (che cosa diceva in fondo Engels di Balzac?).

Il tasso letterario qui non solo è irrilevante, ma pure d’ostacolo: e non per nulla i testi – ne ho sfogliati alcuni, al volo, a una bancarella di libri usati – esibiscono un italiano piatto, grigio, persino burocratico; sono tempi in cui la letteratura può essere sinonimo di contraffazione formale e distogliere dalla forza del nudo racconto di un’esperienza.

Significativo notare che è Nanni Balestrini a occuparsi dei primi volumi della collana. Balestrini, noto reduce del Gruppo 63, più di altri usa nei suoi scritti materiali extraletterari, autentici ready made raccolti metaforicamente per strada: stralci di articoli di giornale, ciclostilati sindacali, documenti giuridici, pagine di diari privati, e spesso li mescola in automatico. L’operazione, meccanica e volutamente disturbante – spesso rende l’avanguardista Balestrini illeggibile – sostiene l’impossibilità di dire una realtà oggettiva: sempre e comunque, e figuriamoci negli anni della borghesia del boom e dell’autunno caldo delle rivendicazioni operaie (cfr. Vogliamo tutto, e poi La violenza illustrata). Proprio con i Franchi Narratori l’oggettività impossibile viene rimessa, con una mossa del cavallo, al centro della partita.

Per saperne di più sui Franchi Narratori, potete cliccare qui

Nota a margine. Mi è venuto in mente il recinto virtuoso e un po’ inquietante dei Franchi Narratori per caso, leggendo un buon romanzo, Febbre, di Jonathan Bazzi (Fandango): è la storia di un adolescente gay che cresce nella malavitosa Rozzano e a trent’anni si scopre sieropositivo. Ho pensato (con il dovuto orrore) che negli anni Settanta ideologici e ignari di memoir Bazzi sarebbe forse finito prigioniero di quella collana innovatrice e – come credo di poter dire nonostante abbia voluto a mia volta mantenermi nel campo di un’improbabile oggettività – vagamente sinistra, non soltanto nel senso della sua indubbia collocazione politica.

Mi ricordo di Caterina Saviane

Scopro che Caterina Saviane, oltre all’introvabile Ore perse, le sue 150 pagine (ovvero i suoi 15 minuti) di successo, ha pubblicato negli anni Ottanta un libro di poesie, Appènna ammattìta, lodato da Andrea Zanzotto, riedito da Nottetempo nel 2015 e disponibile oggi su ebook. Lei è morta di overdose a 31 anni, nel 1991: “il buco finale a Milano, in casa di un’amica”, dice il padre nell’ansa di un’intervista a Stefano Lorenzetto.

La scrittrice Maria Pace Ottieri, in occasione della pubblicazione delle vecchie poesie, ricorda Caterina viva, vivissima, di più, “camminare saltellando” con “il potere di far sentire chi le stava accanto pavido, comune, banale, una sentina di miserabili aspirazioni borghesi”.

Leggo queste parole spulciandole dal web e mi viene in mente d’improvviso che questa ragazzetta magra e perennemente sfumacchiante Marlboro, assolutamente androgina, in perenni jeans scoloriti e camicia azzurra, ha fatto capire pure a me che altri non sono che un poveraccio.

Mi capita infatti di passare nel 1989 dei suoi pezzi, scritti da freelance per il giornaletto per teenager in cui sono stato assunto alla Mondadori. Si tratta di inchiestine a tema – potrebbero avere per argomento il bigiare la scuola o come vestirsi al primo appuntamento – e sono cucite con i pareri volanti di adolescenti che forse converrebbe raccogliere sul serio – si fa molto prima che a inventarli.

Caterina Saviane mi consegna dei dattiloscritti che sono autentiche schifezze, mal scalettati fino ad apparire insensati, e pieni di errori di battitura e pure di sintassi; io sono un po’ più vecchio di lei, ma resto un redattore semplice, e quindi sono intimidito dalla sua fama di scrittrice nonché dal pedigree (è la figlia del geniale irregolare Sergio Saviane!).

Non le dico niente, e non posso che darmi, a malincuore, la più banale delle spiegazioni al suo comportamento: Caterina Saviane non sta scientemente danneggiando, da luddista della penna, un giornaletto che veicola tra le adolescenti valori in fondo piccolo borghesi; Caterina Saviane prende invece sottogamba, da predestinata qual è, un lavoro che considera stupido e forse persino vergognoso. Così, io poveraccio, taccio con aria professionale e sì, un po’ la odio per questa sua trascuratezza che raddoppia il mio carico di lavoro – ecco, lo so, è un modo di ragionare da filisteo ma con tutta la buona volontà non riesco a evitarlo… In solitudine, la sera a casa, ribatto a macchina coscienziosamente i suoi articoli correggendoli e quasi convincendomi di aver letto male la prima stesura. Ma sì, in fondo, questo pezzo su come battere l’ansia prima di un’interrogazione, su dove bisogna fermarsi al primo appuntamento, poteva bene andare…

Una volta che Caterina Saviane mangia alla mensa della Mondadori, la scruto da un tavolo vicino per cercare di afferrare qualcosa di lei; cerco persino di capire quanto sia desiderabile – anche se so benissimo che ama le ragazze; mi piacciono il suo viso scuro e il suo ciuffo ribelle di capelli neri eppure Caterina Saviane emana una naturale sgradevolezza, una spigolosità anche fisica che le fa da protezione; forse dal desiderio ma non dalla malvagità della gente; ecco… ; e io, nonostante in quel periodo giovanile viva ancora di oscuri oracoli e di presentimenti, e avverta il fascino quasi ineludibile dell’eroina, da wannabe borghese in erba, alla fine le giro alla larga.

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