Racconti. AIRPORT BLUES. La solitudine (e la ROCKITUDINE) degli aeroporti

Il testo è apparso per la prima volta sul sito di Ambulance Songs

Avevano passato insieme tutte le estati dell’adolescenza tra le montagne di Cervos. Adesso erano giovani uomini ritrovatisi per caso nello stesso posto, in un’estate lontana da tutto – in sette giorni di vacanza c’era la chance di riallacciare l’amicizia perduta col passare degli anni. Si erano dati appuntamento nello stesso bar dove crescevano bevendo un liquore verdastro, scambiando spacconate e confidenze a mezza voce fatte di pause causate da afasia. Ora come allora, H. era in anticipo.


Seduto al tavolo, aprì il suo quaderno nero e cominciò a scrivere qualcosa con il gesto meccanico che gli dava sempre l’illusione di togliersi l’imbarazzo e l’ansia della solitudine provocata dell’attesa. Solo il tempo di qualche parola, un pensiero intontito buttato giù, appena il tempo di finire una quasi frase e Cesare è davanti a lui, sorto dal nulla. Biascicava saluti e tirava su maleducatamente con il naso. È un’altro, è cambiato, pensò H. che, dopo aver biascicato anche lui i suoi saluti, cercava il modo più veloce di rompere il lieve disagio che condivideva con questo estraneo, l’amico di una volta. Una decina di secondi muti e H. si alzò di scatto. Raggiunse il juke box e disse: che cosa gettoniamo, qual è la canzone che ti piace di più? Dai, raccontami tutto con una sola canzone. Cesare gettonò PARANOID, dei Black Sabbath: ecco, sospirò, questa è perfetta e tirò su con il naso. Ora capirai.
Da tre anni Cesare era tossicodipendente e PARANOID era una canzone speciale.


La seconda novità: i due amici erano diventati tre. Cesare, negli anni di separazione, aveva sposato Nadia, la ragazza col volto da indio che ora entrava nel bar, raggiungeva alle spalle i due uomini davanti al juke box e mentre si avvicinava, sentendo PARANOID, contrasse la sua faccia scura. Nadia aveva i capelli neri, unti, lunghi, gli zoccoli e la giacca di montone, che era la divisa delle ragazze alternative. H. se l’era immaginata proprio così. Si voltò e le disse: ciao, Cesare mi stava parlando proprio di te. Meno male, dissero le labbra di questa faccia da indio, che qualche volta parla anche di qualche cosa d’altro.

PARANOID, scelta dallo spacciatore del paese dove abitava come segnale per far sapere che era pronto alla consegna. Lo spacciatore si chiamava Gommone, per via dell’enorme mole: entrava nel bar dell’hinterland, sempre un po’ in ritardo, metteva su PARANOID, era in qualche suo modo una persona spiritosa, e poi passava alla consegna. In quel momento i muscoli del corpo di Cesare si rilassavano tutti, fino alla bocca, che si apriva in uno sorriso un po’ bavoso, come quello dei cani dopo una corsa. Con questo sorriso in faccia – o almeno con quello che H. si immaginava avesse addosso alla consegna – da ragazzino Cesare aveva corso a perdifiato nella notte, su un viottolo sterrato della cittadina di montagna. A un certo punto, si era buttato in terra e si era segnato il viso di fango: due ditate, a destra e a sinistra della bocca. Era completamente ubriaco e aveva detto a H. che lo rincorreva con la lingua fuori, pure lui ubriaco: sono felice, ora sono un indiano, ma dov’è questa maledetta Spicchio di luna? Dico, la mia squaw – e aveva cominciato a tossire e a vomitare. Ti riporto a casa, gli aveva detto H. mentre pure a lui erano venuti i conati di vomito.


H. cambiò idea, decise che per la sua vita non c’era canzone addatta, non ancora. E comunque ora si trovava sotto l’impero delle emozioni causate dal racconto di Cesare. La coppia uscì dal bar, per fare spese, aveva detto. H si risedette al tavolino. Riaprì il quaderno, ma non scrisse nulla. Ci restò davanti, con la testa immersa nel bianco della pagina. Pensava. Questo era il suo pensiero. Non c’è nulla di strano nel farsi di eroina. Per andare avanti ci si deve pur riempire di qualcosa, anche se questa cosa è distruttiva. A questa età la morte è ancora un concetto disincarnato, così come il corpo – non mostra ancora segni di usura, non è deteriorato – sembra un abito più o meno ben tagliato sull’anima. Pochi giorni prima dell’arrivo di Cesare, H. aveva pranzato con una coppia di conoscenti. Lei aveva partorito da poco, era gentile ed emotiva, tutta un sorriso sottile e lievemente ansioso. Lui un giovane ingegnere dagli occhiali spessi, correggeva le ultime bozze di un libro di logica che sarebbe stato pubblicato alla fine di settembre. Ecco, pensò H., anche loro sono pieni di qualche cosa, hanno una specie di passione totalizzante. Lei, con il sorriso simile a una bianca cicatrice, era ossessionata della bambina, la vestiva e la svestiva, preoccupata dagli sbalzi di temperatura. Guardava spasmodicamente il termometro. Lui era dentro questa questa faccenda della logica. Oltre agli occhiali spessi aveva una testa sproporzionata, di sicuro perché pensava molto, era una testa piena di pensieri, una testa da logico. Non aveva una di quelle teste enormi da malato mentale, che vedi sui giornali quando fotografano un matto e costui si avvicina così tanto all’obiettivo della macchina fotografica, con la sua faccia stravolta – succede insomma che il matto si sbilancia tutto in avanti di modo che il corpo sembri un’insignificante appendice della sua testa. Mentre ricordava questo H. cominciò a scrivere sul quaderno nero.


Cesare ha deciso di disintossicarsi. Naturalmente, dice Nadia, sfottendo, lui ha questo chiodo fisso. H. guardò i due, chiese un altro campari al cameriere e accese una sigaretta. Un’altra sigaretta dopo quella di prima. Una dietro l’altra. Cesare continuava a tirare su con il naso. Nadia si guardava intorno e H. pensava: non riesco a capire qual è il suo meccanismo. Questi incontri al bar si animavano soltanto quando Cesare parlava dei privatissimi fatti suoi: raccontava, come un conferenziere – gli mancava davanti il cartellino, con su scritto: Cesare tal dei tali, tossicodipendente – la sua avventura. Faceva tante pause per la mancanza di fiato che sembrava procurargli la ricerca delle parole, anche di quelle più comuni. H. si sforzava di ascoltare, era forte il disagio che gli procurava la storia di quest’altro bar perso nell’hinterland e l’attesa di questo gigantesco e potente individuo chiamato Gommone. A Nadia si illuminava la faccia, gli occhi neri diventavano due punti brillanti, quasi in rilievo, quando Cesare pronunciava la parola disintossicazione. E prendeva del tempo prima di pronunciarla, lì, col suo cartellino davanti. Dopo soli dieci secondi si capiva che Cesare non ci credeva. H. lo guardava e accendeva una nuova sigaretta, ordinava un altro campari. Uno dopo l’altro. Nadia delusa dopo pochi secondi, cominciava a sfottere Cesare. Più stanca che cattiva. E Cesare andava al juke box. Metteva le cento lire e ascoltava le chitarre di PARANOID.

H. guardava con la coda dell’occhio Nadia delusa, non riesco proprio a capire il meccanismo che muove questa Nadia. Qual è il suo vizio? H. pensava, lei ha questa sciagura, di Cesare eroinomane, che è una seccatura innanzitutto e una continua spiacevole sorpresa. Per esempio, torni a casa e scopri che lui ti ha venduto il cappotto di montone, da ragazza alternativa ma costoso, oppure il frigorifero. E ti dice, è passata la bella lavanderina, le ho dato il tuo montone da lavare, che era tutto sporco. Se non le riesce a pulirlo, ho detto che se lo tenga pure, che tanto è uno straccio. Poi c’è questa storia del frigo, stava facendo un cortocircuito, per fortuna è arrivato l’elettricista, che ci ha salvato la vita e, gentilissimo, ci ha liberato definitivamente della questione del frigorifero, pericoloso e rotto. Ma lei, pensava H., questo Cesare lo ama lo stesso. Certe volte lo guarda con un orgoglio evidente che gli fa brillare gli occhi scuri ancora di più, visto che si vedono benissimo, quasi in rilievo, sulla faccia scura. Questo che cosa significa? Intanto, il cameriere portò un campari, e Cesare si alzò, scostò con una manata maleducata un ragazzo in divisa da finanziere che stava tra lui e il juke box, ci ficcò dentro le cento lire, si udì il clic meccanico del braccio che cade sul disco e dopo un fruscio partì PARANOID. Il finanziere guardò il giovane scortese, poi i suoi amici che erano rimasti seduti al tavolo, poi alzò solo le spalle.
Le note di PARANOID erano così rumorose che coprivano persino il rumore dell’elicottero che si stava appoggiando nel prato vicino al bar. Cesare si voltò verso la vetrata del bar e disse verso l’elicottero, non distrurbare i Black Sabbath. Ma l’elicottero non poteva sentirlo, continuava a scaricare i turisti e li ricaricava, prima di fargli fare, per cinquantamila lire, un viaggio di mezz’ora nella chiostra dei monti. Cesare ritornò al tavolo, tirò su il naso con soddisfazione e disse che pezzo, forti questi Black Sabbath.


Quando prendi quella droga, spiegava Cesare tal dei tali conferenziere, si elimina un gravissimo problema, quello dell’attesa. Passa completamente, diceva Cesare, dentro la bolla di euforia in cui ti trovi improvvisamente nascosto.Ti passa l’angoscia dell’attesa, puoi sederti in un posto qualsiasi e aspettare per ore e ore e anche se alla fine non arriva nessuno fa lo stesso. Questo effetto miracoloso della droga però non convinceva H. al quale sembrava che contenesse una contraddizione, perché quando finiva l’effetto stupefacente ti trovavi tutte le tue attese accumulate e riassunte in un’angoscia unica e straziante, quella di aspettare Gommone. Questo Gommone sempre in ritardo o scomparso nel nulla. Gommone che, nonostante i continui gettonamenti, non compariva nel bar di Cervos, non era evidentemente giunto fino alla montagna col suo carico prezioso, lo teneva sulla pancia, sotto una giaccavento rossa strappata, riparata allameglio con lo scotch. Ma dovevano servire a quello, a farlo comparire lì, in mezzo alla vacanza, le chitarre di PARANOID. Così, aveva concluso H. Cesare svegliava le chitarre dal loro sonno e appena partivano, come a quel cane dell’esperimento scientifico, gli veniva l’acquolina in bocca. Per cinque-sei minuti ritornava una persona normale, normalmente ossessionata, ma normale.

C’era questa cosa, comunque, che H. non sopportava di Cesare tal dei tali, tossicodipendente. Era che il conferenziere, abbandonata la faccenda degli effetti e passando a illustrare il centro profondo del legame con la droga, parlava della sua tossicodipendenza come di un vizio. Questa parola, vizio, H. non la sopportava, avrebbe preferito ribellione o necessità, oppure che Cesare dicesse non posso che fare così per andare avanti. Vizio ricordava a H. quelle cose borghesi che in quegli anni erano disprezzate, le voluttà mondane, il caviale con lo spumante. Oppure gli ricordava quel vizio solitario che in quegli anni tutti gli adolescenti praticavano, meno Santangelo che doveva mantenersi puro per le sue gare di atletica e Dingo che flirtava con la figlia del droghiere di Cervos. H si domandava ma un vizio poi è un’ossessione? E scriveva questa domanda sul suo quaderno nero. E poi scriveva un’altra domanda, perché Nadia sta con un vizioso, come fa a starci. E io posso essere amico di un vizioso?


Quando Cesare e Nadia dovevano occuparsi dei fatti loro H. rimaneva davanti al quaderno nero a pensare, che cosa devo scrivere? Si rispondeva non mi viene niente. Lo psichiatra gli aveva suggerito di tenere questo diario, di riempirlo con quello che gli pareva, riflessioni e sogni, per riuscire a “centrarsi”, a capire i cosiddetti “vissuti”. H. ordinava invece questi campari che andavano via uno dietro l’altro e certe volte si sentiva la testa pesante, era persino tentato di appoggiarla sul tavolo e di prendere sonno. Una volta fu svegliato, posto che il suo trance fosse diventato sonno davvero, dal rumore del flipper. Un giovane in divisa da finanziere stava scuotendo violentemente la macchina che era andata in tilt. Dietro di H. due signori anziani, vestiti da montagna, knickerbocker, calze pesanti, scarponi, stavano discutendo su come si potesse dormire a duemila metri il sonno del giusto, si scambiavono la ricetta di tisane e di blandi ipnotici. Le voci dei vecchi, non si sa bene come, divennero più forti nel cervello di H. del rumore del biliardino elettrico. Ho sonno anch’io diceva H. a se stesso, adesso mi addormento, tanto non ho nulla da fare, anche se c’è questaossessione che mi disturba. Sì, perché l’ossessione di Cesare in qualche modo gli era stata travasata addosso. Il mondo è pieno di ossessioni, pensava però H. e si rimetteva l’anima in pace per addormentarsi. Era Cesare piuttosto, pensava H., che non sapeva calcolare il peso delle ossessioni degli altri. Quando H. gli aveva raccontato dell’ingegnere, le fatiche del suo libro di logica, Cesare aveva detto, non capisco questa faccenda della logica, è un pelo nell’uovo. Neanche se scoprisse le ragioni ultime dell’universo, varrebbe la pena di perderci tempo. Io poi, qual è la logica che muove il mondo lo so. Qual è, aveva chiesto H. Cesare aveva dato una piccola gomitata a Nadia, come uno che la sapeva lunga. Ma Nadia gli aveva restituito la gomitata, dicendogli, non mi incanti.


La seconda caratteristica dello stupefacente era questa, eliminava, così aveva capito H., i vincoli di causa ed effetto. Cambiava il senso delle azioni e dei gesti. Mescolava tutto. Dando sollievo dopo un primo momento di profondissima paura.Ora i bicchieri di campari si infrangono nello stesso attimo. Le sigarette tornano nei pacchetti. Il cameriere cammina all’indietro. Con i piedi piatti da papero. Ritorna all’indietro dietro il banco del bar dove si pettina con un pettinino d’osso.Il flipper ringoia le palline. E le sputa tutte fuori in un attimo. H., Cesare e Nadia diventano prigionieri di enormi bolle di sapone, che diventano più piccole, come delle biglie di vetro, con dentro volti un po’ spaventati ma compresi nel miracolo, quello dei nostri due eroi maschi e quello della squaw Spicchio di Luna. Mentre, ma forse prima, ma forse intanto, da fuori, l’acqua ghiacciata è entrata dalle finestre del bar e un finanziere dice al pilota dell’elicottero, un gigante vestito con una divisa da aviatore tedesco. Gli dice, per oggi, credo che non si vola. Ma potrebbe essere vero l’assoluto contrario. Potrebbe essere la giornata migliore per volare, dice al pilota e a H che lo guarda con la bocca aperta. Ciao, dicono tutti. Vuoi questo allora, chiede il vecchio con i knickerbocker. Ha in mano una bottiglia di liquore verdastro. Tanto puoi non rispondergli. O rispondergli sottovoce, con un sibilo appena.
H., Cesare e Nadia si guardano e i loro occhi diventano bianchi, poi trasparenti, di vetro finissimo. Nessuno gli avrà più belli. Mai. Oppure no. Insomma, sarebbe andata un po’ così, se solo Gommone arrivava nel bar di montagna, a Cervos. Se io potessi “scentrami” senza avere paura, pensava H. che guardava Cesare e Nadia e si sentiva un po’ ubriaco.

La volta che Cesare e H. da ragazzini avevano vomitato sullo sterrato, era perché avevano vinto, battendo altri due amici, una gara di alcol, Cesare e H. erano arrivati a dodici bicchierini di liquore verdastro. Santangelo si era fermato a cinque perché il giorno dopo aveva una partitella di calcio, e aveva paura che gli tremassero le gambe, e Dingo a dieci e mezzo, nel proseguio della sua serata c’era un incontro sessuale, con una segretaria di Cervos. O, almeno, così si era vantato, prima di cadere giù dallo sgabello del bar. Le gare di bicchieri dell’adolescenza, che ai più sembrano destinate a far ruggire la bestia che in ogni gabbia d’adolescente è chiusa, sono invece un mezzo per stordirla. Così stava pensando H., è come dargli un pugno sul muso, a quella bestia, e non trovarsela davanti per un po’. Chissà se l’eroina, pensava H., serve allo stesso scopo? Come l’alcol, appunto, l’erba e gli acidi e persino le anfetamine. Che ti mandano il motore al massimo, ma dentro tu senti un rumore fortissimo, un rumore di pale che girano vorticosamente, come quelle dell’elicottero dei turisti di Cervos, di modo che in realtà non senti più nulla. Questo Santangelo della gara dei bicchieri era morto due anni dopo, durante un’immersione, ma la sua morte non aveva portato a H., che aveva ragguagliato Cesare sul fatto, un’acquisizione in più sulla fragilità del corpo. Il corpo rovinato di Santangelo, ritornato a riva come uno straccio, era stato semplicemente vittima di un incidente sventurato che colpisce, facendo una media, una persona su un miliardo, un ragazzo, poi, su dieci miliardi. Parlandone a Cesare, H. pensava alla pressione che si era sprigionata contro questo povero corpo da atleta, in fondo al nero del mare, era la pressione che sentiva, certe volte, chiuso nel bar, quando fuori pioveva e il tramonto scuriva i vetri delle finestre appicicandogli contro come degli stracci neri.


In questi momenti H. era attaccato dall’angoscia che gli impediva di restare dentro il bar, a chiacchierare con Cesare e Nadia, e pure gli impediva di uscire ad affrontare l’acqua che cadeva ghiacciata dentro il buio. In questi momenti H. stava imparando ad aspettare. Una cosa difficile. L’attesa è sempre una cosa difficile a quell’età. Soprattutto quando non sai che cosa aspetti. Ma H. aveva iniziato a capire che durante l’attesa nessuno poteva aiutarti, dirti, aspetta tranquillo perché poi ti arriva una specie di regalo. H. aveva capito che solo se era fortunato tornava un po’ di sole e il mondo si faceva di nuovo sopportabile. H. accendeva una sigaretta, ordinava un campari, ascoltava PARANOID sul juke box e il rumore delle pale dell’elicottero. Il problema dell’elicottero era diventato questo, uno scherzo tra H. e Cesare. Perché non riuscivano mai a vedere chi lo pilotava. A capire chi mai era questo forzato dell’avventura turistica. H. e Cesare guardavano spesso fuori dal vetro ma non avevano mai visto il pilota quando, dopo otto ore di escursioni, timbrava il cartellino da impiegato dei cieli e tornava a casa. Scommetto che ha una tuta da ufficiale nazista, diceva H. e che va avanti a liquore verdastro. Ma perché non viene qui al bar, diceva Cesare. Potrei chiedergli se mi lascia fare un giro, mi piacerebbe pilotare un po’ di turisti contro una montagna. He he he, diceva, e tossiva e tirava su con il naso. E Nadia diceva, sfottendolo, mi consola che qualche volta pensi anche agli altri, oltre che a te.


Una volta che rimase solo H. si alzò e andò al juke box, gettonò una canzone che si chiamava REAL MEN. La qualità dei Veri Uomini è quella di saper aspettare, riempire i tempi tra un’appuntamento e l’altro con disinvoltura, all’aeroporto i Veri Uomini aspettano la chiamata del loro volo acquistando giornali, profumi e dopobarba al duty free shop. Le loro teste sono acconciate dal barbiere e se sono ipertrofiche è perché sono state forgiate nella comparazione dei testi di un’agiografia latina oppure in calcoli da commercialista. Niente a che vedere con le teste dei matti. Degli psicopatici. Anche a Nadia poteva venire un testone, pensava H. Soprattutto quando teneva i gomiti appoggiati sul tavolo e i pugni sul mento a reggerle la testa. La sua testa poteva scoppiare da un momento all’altro se Cesare avesse continuato a non guardarla, a tirare su col naso, a gettonare PARANOID, a dire che forti questi Black Sabbath. La testa di Nadia avrebbe avuto la pressione interna giusta, così alta che sarebbe scoppiata come un pallone in mezzo al bar. Come una vescica di sangue sarebbe scoppiata, bagnando tutto attorno. Per fortuna, pensava H., la pressione poteva uscire, sbassarsi, perché le usciva fuori attraverso la brillantezza particolare degli occhi neri. Gli occhi di vetro finissimo sono diventati l’ossessione di H. La pioggia ora tocca gentilmente le finestre del bar. Io, dice H, e poi si addormenta. Oh Dio, dice ai suoi amici, che sonno. Ma come fa uno a chiamarsi Gommone, a essere così cattivo. E poi si riaddormenta.


Non appena Cesare e Nadia erano tornati in città, lui per continuare i suoi traffici, lei per amarlo e accudirlo, H. si sentì molto solo. E dopo REAL MEN voleva gettonare una canzone che non esisteva in nessun juke box del mondo, dal titolo la Solitudine degli aereoporti. Era una ballata che si avvolgeva su se stessa come una spirale. La Solitudine degli aeroporti parla di una grande hall che ha il soffitto di vetro, dove si vedono passare le pance scure dei velivoli. Una dopo l’altra. Lente e mute, quasi al ralllentatore, poiché non si sente il rumore dei motori. Nella hall non c’è nessuno, ma a terra sono poste valigie colorate, che seguono un percorso a zigzag, e fogli di giornali dai titoli incomprensibili, come se le parole si fossero condensate insieme, come accade sovente nei sogni. C’è solo una persona nella hall, una vecchia signora con l’impermeabile, che siede su una valigia. Ha due occhi sporgenti da ipertiroidea. Forse conosce le implicazioni della Solitudine degli aeroporti: H. la guarda e il cuore gli batte forte nel petto. H. si è finalmente assopito, la pressione dentro la sua testa è scesa, le mani sono diventate fredde e si sono abbracciate al taccuino e alla penna. Dietro di lui ci sono i due uomini anziani con i knickerbocker che si scambiano informazioni su come indurre il sonno e stanno per andarsene dal bar, alla tv, dice uno all’altro, c’è una partita di calcio. Poi, buonanotte. Quando anche H. si alza dal tavolo, strascicando i piedi, e apre la porta per uscire dal bar, va a sbattere sulla pancia di un uomo enorme che sta entrando. È Gommone, pensa H., questo è Gommone, pensa. E dopo averlo schivato scivolandogli intorno alla pancia, comincia a correre. Prima piano, poi veloce, nella notte.

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