
Alberto Bevilacqua era marcato a uomo in Mondadori dalle addette stampa, nel senso che gli dedicavano un’attenzione preoccupata – era sovente depresso, e pure incazzoso, e pure imbranato: andava accudito quando viaggiava e sorvegliato perché non facesse pasticci. Era del resto una delle rare galline dalle uova d’oro della casa editrice di Segrate.
Per una serie di sfigate concomitanze mi toccò intervistarlo al volo per I sensi incantati – il romanzo che nel 1991 inaugurò l’impervio periodo magico – in una saletta angusta al terzo piano della Mondadori, allora famosa per i suoi open spaces (qui nisba, eravamo peggio che in ascensore).
Mi parve onesto confessare allo scrittore che non avevo letto il romanzo e, mentre lui iniziava a ruggire in preda a un rabbioso sconforto, peggiorai la situazione dicendo: “Ma sa, mi è capitata quest’intervista tra capo e collo per una serie di coincidenze sfortunate…”
Be’, l’addetta stampa del momento venne chiamata a gran voce da un Bevilacqua imporporito e fu ribaltata, pur non avendo colpa, e io dovetti giocare un’intervista-partita di ping pong con un Alberto scorato che neanche ributtava di là la pallina, finché… lessi, tra una domanda e l’altra, sull’aletta del libro, l’elenco dei film girati dallo scrittore parmense.
Mi accorsi che mancava Attenti al buffone, un pasticciaccio intellettualoide del 1975 con Nino Manfredi, che ricordavo in quanto bizzarramente disperato e per il futile motivo che presentava generose scene di nudo.
Servii quindi la pallina con decisione: “Ma come, non ha citato in curriculum il suo Buffone? È un titolo ingiustamente preso sotto gamba… Non lo sottovaluta per caso lei stesso?”. Bevilacqua mi guardò come un terrestre improvvisamente accortosi dell’umanità recondita di un marziano; e, grato quanto sorpreso, cominciò a rispondere a tono.
L’anno dopo, alla consegna di un nuovo romanzo, Bevilacqua apparve inaspettatamente davanti alla mia scrivania in Mondadori: siccome ero al telefono, si limitò a un “grazie”, a un cenno della mano e, sparendo, lasciò nell’aria per un po’ il suo bel sorriso da maestro sofferente.
A margine Per sottrarre Alberto Bevilacqua dal cono d’ombra in cui è precipitato dopo la morte (2013) – e per ricalibrarne l’importanza nel panorama delle patrie lettere – è uscito un saggio di Alessandro Moscè, Alberto Bevilacqua. Materna Parola. Ritratto di uno scrittore (Il Rio Edizioni 2020). Essendo Moscè poeta, ha particolare rilievo la disamina dell’opera in versi di Bevilacqua, oggi sottovalutata. Ne parleremo.
In questi giorni sto rileggendo il suo Eros. Lo lessi la prima volta nel 1996 a 19 anni, ora ne ho quasi 43. Leggendo il tuo aneddoto, capisco alcune sue pagine.. un uomo che viveva nel mondo acqueo delle emozioni, quasi privo di contatti con energie più terrene e di terra. Dopo la sua morte, è stato dimenticato. Conoscendo poco della sua opera di scrittore a parte il libro da me citato, non saprei perché.
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Il mio resoconto è volutamente comico, ma non si scosta molto dalla realtà. Anzi. Bevilacqua era un curioso delle donne, sempre pronto a mettersi in assurdi pasticci (finì pure per colpa di una donna nelle indagini sul mostro di Firenze!). Secondo me, vale la pena rileggere i primi romanzi, la Califfa, Una città in amore… gli ultimi li trovo impervi e non capisco come potessero vendere copie su copie.
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