
Era così snob e imprevedibile che nel tempestoso 1977, 14 anni dopo aver fatto parte dell’avanguardistico gruppo 63, condusse un programma tv, Match, delizioso e crudele, dove duellavano due personaggi, mi ricordo un divertentissimo scontro Moretti – Monicelli.
Nel frattempo, Alberto Arbasino, scomparso a 90 anni, aveva (forse) abbandonato la via del romanzo sperimentale (espressionista/surrealista/di tormentata e irridente linea lombarda) per una sempre più torrenziale produzione ibrida, dove tutto si mescolava, alto medio e basso, e soprattutto il sublime con il trash, in un continuo scartare, che poteva portare al punto fermo di formidabili pamphlet come Un paese senza (Garzanti 1980 e 1990), ritratto feroce di un’Italia volgare e amorale, da rileggere ieri oggi domani.
Intanto, sui quotidiani, si imponevano a mo’ di elzeviri interminabili le sfaccettate arbasinate, cioè resoconti vertiginosi di viaggi e di eventi culturali, di musica e di quadri, di mondanità e appuntamenti col bello o col kitsch, o col camp, infarciti di ricordi divagazioni commenti chiacchiere battute e tormentoni (signora mia, la casalinga di Voghera…).
Se devo rileggere qualcosa di Alberto Arbasino, lascio un attimo da parte La bella di Lodi e Fratelli d’Italia, SuperEliogabalo e La Narcisata, e vado ai pezzi irresistibili e divertentissimi dedicati ai “nonni piuttosto nefandi”, fotografati in una riedizione di Certi romanzi (Einaudi, prima comparsa nel 1964), in cui con virtuosistici elenchi svelava il bric à brac letterario della triade Pascoli, d’Annunzio, Gozzano.
L’ho incontrato l’ultima volta qualche anno fa, in coda alla biglietteria per una prima alla Scala, vecchio molto, troppo, ma bellissimo sempre ed elegante ça va sans dire. Mi rammarico di non avergli chiesto un selfie.
Foto: Mario Biondi writer