
Probabilmente capita anche a voi di finire sulla Spoon River spesso involontaria dei Social Network. Succede che, per pigrizia o per mancanza di password, per mancanza di diritti o per i doveri del ricordo, nessuno resetti i profili dei defunti evitando così di scagliarli nel nulla, al di fuori del già invisibile cyberspazio.
Capitiamo così in un cimitero imprevisto in FB e Instagram, per nominare due luoghi virtuali che aspirano per mano e per selfies dei loro iscritti a narrare quello che sta alla luce del sole – le chances che la vita offre ai profili registrati – escludendo teoricamente i corpi impudichi del porno e del lutto.
Pensi a questo, e scopri che sono passati cinque anni dalla morte di Jonathan Waiter, fotografo e art director di NY (nickname Sevenheads) deceduto letteralmente online su Instagram nel 2015, mentre scorri il suo diario in immagini e parole, post dopo post fino all’ultimo.
“Fluid collecting around my heart, can’t breathe. Fluid in my right lung, causing it to collapse” è l’ultima didascalia scritta sotto un video selfie ospedaliero che JW si è fatto in mezzo a fili, macchine, flebo, la faccia gialla e gonfia. Alla sua destra sta un apparecchio per le ecografie che ci lascia spiare – è pornografia, questa, non vi pare? – l’interno di un involucro di carne, delle spoglie martoriate.
Ma riavvolgiamo il nastro, cioè scrolliamo lo schermo del cellulare. Siamo al 9 luglio 2012. Comincia qui il Calvario di JW sul profilo aperto apposta su Instagram per raccontarlo. JW che è un bel ragazzo, cool e smart, e di linguaggio internazionale, con un lavoro appealing in una città di sogno, NY. È l’immagine stereotipata, cioè, molto Instagram, di un piccolo vincente, che la malattia scheggerà a poco a poco, fino al crollo dei luoghi e dei loghi comuni delle nostre vite apparentemente felici.
Poche foto dopo: la prima chemioterapia. Comincia la partita. JW sa che può giocarla e riempirà lo stop and go dagli ospedali, la speranza con la disperazione e viceversa, grazie a immagini di set di moda, di amiche magre e sofisticate, modelle alternative dal cuore d’oro, che lo vanno a consolare accanto al letto di malattia o lo portano a spasso, in brevi fughe di benessere, sotto protettivi grattacieli.

JW è però più concentrato nei suoi post sulla terapia medica, sui cambiamenti del corpo, sui risultati parziali della lotta (“I am the beast I worship”, scrive sotto un autoritratto sfocato). Pubblica foto di apparecchi medici e di bisturi, accanto a amabili scatti di compagne di sventura – che, va detto, sono belle come le modelle amiche: JW sa fotografare -, e si incupisce a volte tra i presagi in forma di mortuarie farfalle o di gatti neri dagli occhi luccicanti.
Il sospetto di estetismo decadente svanisce mano mano che la malattia si fa avanti e, come si dice stolidamente oggi, JW inizia a “perdere”. Gli scatti diventano raffinati ma in una maniera graffiata, sghemba, elettrica e cupa, i self portraits ritraggono adesso un uomo irriconoscibile sempre attorniato da ragazze svelte e un po’ anoressiche eppure un po’ più affannate che all’esordio. New York è un paesaggio lontano, e Instagram stesso si tramuta in Windowgram. Il mondo visto dalla finestra di un auto, di un ospedale, di un loculo. “My new room. No longer private. No longer tolerable. I hate this place”. Cosi scrive JW nel febbraio del 2013 sull’orlo del precipizio.
L’estetismo decadente va a farsi fottere. Metto una data: 20 aprile 2014. Aumentano le dosi della chemioterapia. JW fotografa chissà dove, forse da un libro illustrato che ha tra le mani, la statua di un Cristo in croce controluce.
Resiste fino all’ultimo, cerca cioè di restare tollerante nell’intollerabile Calvario, lo sguardo sul corpo, sul viso gonfio, ripreso spesso in bianco e nero. Ma ci accorgiamo, con un misto di comprensione e di pietà, che nel 2014 JW è sul punto di non sopportare più nemmeno la “stanza malata del suo corpo”, quando inizia a parlare di cure sperimentali da cui non si aspetta proprio nessun miracolo. Nel gennaio del 2015 arriva spietata the end. Fine della pellicola. Dei post. Il nulla sullo schermo.
Ma JW ci guarda ancora, cinque anni dopo, tutte le volte che digitiamo ed evochiamo il suo nome nella bara social che ha costruita come una sfida al nostro occhio intossicato da post tutti uguali – anche la pornografia in fondo è una sorta di sfida – ci affronta con coraggio, armato di una vanità disperata.

Jonathan Waiter è morto per un linfoma Non-Hodgkin curato con chemioterapia e due trapianti di midollo. Qui il suo sito