Contro MARRACASH E LA NOIA DEL RAP che è mainstream e parla solo di sé e di privé

Impressiona, ascoltando Persona, il nuovo album di Marracash, uscito dopo quattro anni di silenzio (Status) e subito finito primo in classifica, la varietà persino eccessiva – il trasformismo, si direbbe in termini politici – del repertorio. Quasi che i quarant’anni abbiano chiesto al rapper un pedaggio di abilità e versatilità.

Il desiderio di piacere a tutti, declinato in camaleontici featuring, marchia infatti un progetto dall’ambizioso concept – Marracash dedica ogni brano a una parte del corpo per presentarsi per così dire “al completo”, e offrire al pubblico la persona del titolo oltre che il personaggio. Ma pure le parole sembrano appartenere a una vorticosa e divertente superficie, col rischio di svalutarsi nonostante la bravura nel cavare meraviglie da sillabe e metri.

Vogliamo troppo? Siamo così passatisti da battezzare come brano più nuovo (almeno per Marracash) quello rubato alla preistoria del rap italiano? È infatti un remake di Quelli che benpensano, con Coez al posto di Frankie Hi-nrg, che parte dall’invocazione “oh algoritmo che sei nei server” e motteggia su “Il sonno della ragione vota Lega”.

Per il resto. Con Guè Pequeno, amico di sempre, Marracash denuncia la solita crisi valoriale che poi ti porta a due passi dall’overdose; con Mahmood si diverte giocando sulla somiglianza fisica e le radici comuni che lo legano al primo dell’ultimo Sanremo; insieme a Cosmo, entra con un po’ di ironia ma non troppa nel pianeta Greta Thunberg; grazie a un resuscitato beat dei Corvi, serve Il fegato in un track muscolare che deve parecchio a Salmo.

Il pezzo decisivo per il nostro discorso è però il featuring con il nuovo astro Madame: chiamata non a caso a esprimere L’anima, la cantante di Sciccherie assiste Marracash in una canzone tout court; se non fosse per l’autotune, ci troveremmo in pieno mainstream pop italiano, il che fa riflettere sulla ordinarietà musicale seppur movimentata di tutto il concept.

Il discorso così può farsi generale: il rap nasce per raccontare la realtà in un modo più svelto e meno ideologico cioè imbalsamato degli altri, sia che rappresenti culture altre sia che parli per l’universo mondo; in identica maniera si è comportato il rock nei numerosi strappi della sua storia, ai tempi del punk che affossò i preziosismi del prog o del grunge che seppellì il presuntuoso AOR. Il ciclostilato o lo scatto digitale, insomma, al posto della foto di classe scattata dal bidello nascosto dallo straccio nero dietro il treppiede.

Ora, Persona di Marracash, sulla scena italiana, è uno scatto da bidello, overproduced, pesante e pomposo come un album dei Pooh o un duetto Ramazzotti-Pausini, denso e ingorgato come un best of di Biagio Antonacci o l’ennesima puntata delle avventure canore di Mina. Che cosa ce ne facciamo? E soprattutto: che realtà descrive? Per chi parla oggi il maturo Marracash? Persona finisce per esibire, con un soundtrack sontuoso, una laboriosa catena di parole e immagini stereotipate che contengono infimi brandelli di reale…

Per semplificare: non dovrebbe essere proibito ai rapper di qualsiasi età – non solo a quelli in odor di bollitura anagrafica – usare la parola privé? Nessuno nella vita vera ha mai saputo che cosa siano o ci è mai entrato. Se esistono, cari rapper del Pleistocene (capito Guè?), chiudetevi lì dentro e lasciate il passo a chi ha ancora qualcosa da dire e un nuovo modo di dirlo. Se c’è.

P.S.: come è lontano il 1989 in cui David Foster Wallace scrive con l’amico Mark Costello Il rap spiegato ai bianchi (minimum fax). Pur se, già al capitolo 3h, DFW constatava come, da vaffanculo salutare all’America di Reagan, il rap, strozzato in convenienze e ipocrisie, aveva finito col portare altro ciarpame alla portata delle nostre orecchie.

Foto di Gabriele Ardemagni

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